Sono sempre piuttosto diffidente verso la cultura basata sui grandi nomi, quelli che quasi tutti conoscono e che quindi attirano.
Capitava così negli anni ’80-’90 a teatro, quando veniva proposto solo Pirandello, Goldoni, Feydeau, et similia.
Capita ancora oggi nel mondo dell’arte in generale, e della fotografia in particolare.
Poiché la fotografia è purtroppo ancora un’arte minore, almeno per il grande pubblico, e quindi il richiamo si fa usando i grandi nomi: Mc Curry, Cartier Bresson, Mc Curry in tutte le declinazioni possibili (… e i libri, e gli animali, e gli antipasti, e le scarpe, e le zie, ecc.), Vivian Maier, Mc Curry (sì, sì, sempre lui, stavolta coi tacchini e i bambini), ecc. Insomma si è capito.
Per fare mostre di cassetta si propongono sempre i soliti nomi, anche a ripetizione.
Per carità! Si capisce bene che organizzare una mostra ha dei costi notevoli (programmazione, trasporti, assicurazioni, personale, e così via) ma talvolta la sciatteria è sconfortante, per usare un eufemismo.
Mi riferisco per esempio alla mostra su Vivian Maier proposta a fine 2019 a Stupinigi, su cui avevo già scritto tutto il peggio possibile.
E il popolo bue è sempre pronto a pagare biglietti sempre più cari per mostre sempre più scarse, pur di poter dire “c’ero anche io”.
Non si tratta di fare snobismo, ma di capire che la cultura non è seguire la corrente, ma è proposta di ricerca, di crescita, di elevazione, di studio, di fatica, di anticipazione.
Mi rendo conto, elencando, che si tratta di valori oggi in grave crisi.
Discorso diverso invece per quanto riguarda la mostra “Vivian Maier inedita”, proposta alle Sale Chiablesi, dal 9 febbraio al 26 giugno.
Mostra molto ampia e ben curata, con un indovinato percorso tematico, con un degno allestimento.
Continuo a pensare che Vivian Maier non sia una delle più grandi fotografe del XX° secolo, come mira a farci pensare il formidabile apparato di marketing che circonda la sua figura orchestrato dalla Maloof Collection, proprietaria della gallina dalle uova d’oro.
Si tratta certamente di una ragguardevole amateur, che merita certamente un posto di riguardo nella storia della fotografia, ma della cui consapevolezza si potrebbe discutere a lungo, soprattutto se si considera che dell’imponente mole di stampe e rullini neppure sviluppati si è venuti a conoscenza solo dopo la sua morte ed in modo assolutamente fortuito, lasciando aperta la possibilità di pensare che la fotografia per lei avesse una valenza terapeutica più che “artistica” o “reportagistica”.
Ciò non significa sottostimare il valore dello spontaneismo, che diversamente si sottrarrebbero alla storia dell’arte molti importanti artisti del ‘900, con scarsa o nulla fortuna in vita.
Riguardo all’”inedita”, diciamo subito che delle oltre 250 immagini esposte, molte sono assolutamente già straviste.
Si deve tuttavia riconoscere che la curatrice Anne Morin ha saputo, in un sapiente allestimento per tematiche, proporre molte “perle”.
La mostra affronta la totalità del lavoro della Maier, dalle foto di street fino ai poco noti filmini in super8, dagli anni ’50 alla fine degli anni ’80.
Tra le diverse sezioni tematiche proposte lungo il percorso espositivo, mi preme qui segnalare ciò che ho trovato particolarmente degno di nota, in quanto diverso dal solito e dal più noto.
La sezione “autoritratti”, oltre ai famosissimi ritratti specchiati nelle vetrine dei negozi, ce ne propone molti giocati sulle ombre e sui profili proiettati: una modalità certamente meno vista e conosciuta, ma che mi ha suscitato interesse ed ammirazione.
L’ombra del fotografo è normalmente considerata un errore. In questo caso Vivian Maier ha saputo farla diventare soggetto importante, elemento “animato” della composizione, con una sottile ironia allusiva, forse inconscia metafora della propria situazione esistenziale: una donna che vive nell’ombra, e che nell’ombra esprime se stessa in una modalità nascosta.
Il motivo delle ombre si ritrova nella sezione dedicata all’infanzia, nelle cui immagini gli stessi bambini che accudiva diventano partecipi del suo gioco.
Una indubbia capacità di creare situazioni in cui l’osservatore si sente chiamato, invitato alla partecipazione attiva, ad indagare e a porsi domande.
Anche per questo motivo, nelle foto che qui propongo ho aggiunto volontariamente la mia ombra, o i miei riflessi, e per giocare insieme a Vivian.
Sorvolo sulla “ruffiana” esposizione delle foto che la Maier ha realizzato a Torino nel ‘59, nel suo sembra unico viaggio fuori dagli Stati Uniti, sulla strada della avita regione francese del Champsaur: niente di più che banali cartoline ricordo di viaggio.
Mi soffermo invece sulla sezione intitolata “segni”. In queste immagini, che credo di non aver mai visto prima, la Maier si sofferma su oggetti o particolari, a volte talmente slegate dai propri referenti o contesti da risultare astratte.
Questa specie di catalogo di “trouvailles” trova un filo narrativo nel lungo termine e nella quantità, ricomponendosi alla fine nel racconto di un gioco, non direi infantile, magari maturato nelle sue attività di baby sitter.
L’ultima sezione su cui invito a soffermarsi è quella dei “giochi cinetici”.
Dall’inizio degli anni settanta il movimento e la frammentazione si inseriscono nel suo linguaggio fotografico. Vivian Maier gioca con le temporalità, creando sequenze cinetiche, come usando il linguaggio cinematografico.
In questa sezione ho trovato dei veri, a mio modesto giudizio, colpi di genio che mi hanno catturato ed ispirato.
Il resto non lo anticipo, ma lo troverete riccamente esposto e sapientemente descritto anche nei generosi pannelli di presentazione di ogni sezione tematica.
Per ultimo, purtroppo due parole sull’illuminazione. Nella precedente mostra a Stupinigi era orrenda, insieme ad altri aspetti. Qui, nelle Sale Chiablesi, è molto migliorata, anche grazie a spazi di fruizione molto abbondanti.
Tuttavia quasi tutte le stampe riflettono in modo fastidioso. Allora io chiedo due cose:
- Per una mostra il cui biglietto di ingresso non è proprio popolare, non si potrebbero allestire cornici con vetro antiriflesso?
- Per quanto possa valere una stampa “argentique”, visto che sono comunque tutte ristampe, è proprio il caso di mettere un vetro di protezione? Non si potrebbe godere della vista “tattile” della ruvidità della carta senza un vetro di mezzo? Se anche se ne rovinasse una o due, cosa ci vorrebbe a ristampare? Ci sono nei musei opere di ben altro valore con minore protezione dal pubblico.
Godetevi una mostra di complessivamente ottimo livello!